Datore di lavoro e disponibilità giuridica dei luoghi

Questo mese si propone un'analisi della sentenza del 9 agosto 2022, n. 30809, con la quale la sezione IV della Corte di Cassazione penale ha sostenuto che il Committente, in applicazione dell’art. 26 del D. Lgs. n. 81/2008 e s.m.i., deve essere un vero e proprio Datore di Lavoro e non un soggetto privato, in quanto la disciplina di cui al medesimo articolo ha come ambito di applicazione una azienda e il suo ciclo produttivo, sempre che il Datore di Lavoro abbia la disponibilità giuridica dei luoghi ove si svolge l'appalto. 

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La Suprema Corte ha evidenziato che la ratio della norma (nella versione originaria dell’articolo) è stata quella di tutelare i lavoratori appartenenti ad imprese diverse che si trovino ad interferire le une con le altre per lo svolgimento di determinate attività lavorative nel medesimo luogo di lavoro. Per questo motivo, il Datore di Lavoro "Committente" è tenuto ad apprestare all'interno della propria azienda quanto necessario al fine di prevenire ed evitare i rischi aggiuntivi, detti interferenziali, attivando e promuovendo percorsi condivisi di informazione e cooperazione, soluzioni comuni di problematiche complesse, rese tali dalla sostanziale estraneità dei dipendenti delle imprese appaltatrici all'ambiente di lavoro, dove prestano la propria attività lavorativa. Successivamente, ha precisato la Suprema Corte, che con l’art. 16 del D. Lgs. n. 106/2009 al primo comma dell'art 26 del D.Lgs 81/08 "Obblighi connessi ai contratti d'appalto o d'opera o di somministrazione", è stata inserita la condizione che il Committente-Datore di Lavoro abbia anche la disponibilità giuridica dei luoghi, nei quali si svolge l’appalto o la prestazione di lavoratore autonomo. 

Il fatto di cui alla sentenza in esame ha riguardato l’infortunio mortale accaduto a un dipendente di una ditta appaltatrice caduto dall’alto durante alcuni lavori di rifacimento della copertura di un capannone di proprietà del Committente, ma utilizzato da una impresa affittuaria. Condannato nei due primi gradi di giudizio, il Committente ha proposto ricorso per cassazione e la Corte Suprema, nel prendere le sue decisioni, si è espressa sulla corretta interpretazione del perimetro di applicabilità dell’articolo suddetto e, ritenendo incongruo nel caso in esame il richiamo allo stesso, ha annullato la sentenza impugnata con rinvio degli atti alla Corte di Appello di provenienza per un nuovo esame. 

Di seguito, i motivi di ricorso accolti:

  1. a) il Committente non aveva la "disponibilità giuridica" dei luoghi in cui "si svolgeva l'appalto";
  2. b) non vi erano rischi interferenziali, non essendo coinvolte altre imprese, oltre la ditta appaltatrice.

Infortunio mortale del lavoratore sul ponteggio (Sentenza Cass.pen. n. 570 del 11.01.2023)

Il corrente mese si prende in esame la sentenza n.570 della Cassazione Penale, Sez. 4, 11 gennaio 2023 (ud. 4 ottobre 2022) in materia di infortunio mortale del lavoratore avvenuto su un ponteggio in fase di smontaggio (lavori in quota).

Nel caso di specie, l’amministratore unico di una società era stato chiamato a rispondere del reato di cui agli artt. 41, 589, commi 1 e 2, c.p., in relazione alle norme per la sicurezza dei lavoratori, per la morte di un dipendente che, mentre si trovava su un ponteggio di una galleria, in fase di smontaggio, veniva colpito da un'asse di contenimento della gettata di cemento con la quale veniva realizzata la veletta e perdeva l'equilibrio.

Essendo il ponteggio privo di dispositivi di sicurezza (sponde laterali) per la prevenzione del rischio di cadute dall'alto, precipitava dallo stesso da un'altezza di circa 10 metri, riportando le descritte gravissime lesioni che ne determinavano la morte dopo circa un'ora, riscontrata sul posto dei sanitari intervenuti.

La società era stata ritenuta dai Giudici di merito responsabile dell'illecito amministrativo di cui all'art. 25-septies, comma 3, d.lgs. n. 231/2001, per aver tratto vantaggio dalla condotta del reato attribuito all'amministratore unico.

Il vantaggio era stato ritenuto derivante, in particolare, dalla mancata messa a disposizione ai lavoratori di idonei mezzi di protezione individuale (con specifico riferimento ai sistemi di protezione contro le cadute dall'alto), dall'omessa formazione specifica ai lavoratori medesimi in materia di montaggio/ smontaggio dei ponteggi e dall'assenza di un preposto a tali lavori effettivamente nominato e quindi retribuito dalla società (condotte da cui derivava l'infortunio mortale)

Nella vicenda in esame, secondo la Corte di Cassazione, i giudici di merito non avevano però adeguatamente motivato sulla concreta configurabilità di una “colpa di organizzazione dell'ente”, né avevano stabilito se tale elemento avesse avuto incidenza causale rispetto alla verificazione del reato presupposto.

Secondo i giudici di legittimità, tale aspetto invece, avrebbe meritato uno specifico approfondimento, anche e soprattutto con riferimento al concreto assetto organizzativo adottato dall'impresa in tema di prevenzione dei reati della specie di quello di cui ci si occupa, in maniera tale da evidenziare la sussistenza di eventuali deficit di cautela propri di tale assetto, causalmente collegati con il reato presupposto.

La Corte di Cassazione rilevava, infatti, che, già dalla descrizione del capo d'accusa, non emergeva con chiarezza il concreto profilo di responsabilità addebitato alla società, ai sensi della disciplina del decreto n. 231, avuto riguardo a quei "modelli di organizzazione e di gestione" richiamati dagli art. 6 e 7, comma 2, d.lgs. 231/2001, la cui efficace adozione consente all'ente di non rispondere dell'illecito, ma la cui mancanza, di per sé, non può implicare un automatico addebito di responsabilità.

Di conseguenza, i giudici di legittimità, con la sentenza in commento, hanno ribadito che la tipicità dell’illecito amministrativo ex D.lgs. 231/2001, imputabile all’ente, costituisce un modo di essere “colposo”, specificamente individuato, proprio dell’organizzazione dell’ente, che abbia consentito al soggetto (persona fisica) di commettere il reato.

In tale prospettiva, l’elemento finalistico della condotta dell’agente deve essere conseguenza di un preciso assetto organizzativo “negligente” dell’impresa, fondato sull’inottemperanza, da parte dell’ente, dell’obbligo di adottare le cautele, organizzative e gestionali, necessarie a prevenire la commissione dei reati previsti tra quelli idonei a fondare la responsabilità dell’impresa.

 

Pertanto, le condotte colpose dei soggetti responsabili della fattispecie criminosa, presupposto dell’illecito amministrativo, rilevano solamente se è riscontrabile la mancanza o l’inadeguatezza delle cautele predisposte per la prevenzione dei reati previsti dal D.Lgs. n. 231/01.

La ricorrenza di tali carenze organizzative giustifica il rimprovero e l’imputazione dell’illecito al soggetto collettivo, oltre a sorreggere la costruzione giuridica per cui l’ente risponde dell’illecito per fatto proprio (e non per fatto altrui).

Ciò rafforza l’esigenza che la c.d. “colpa di organizzazione” sia rigorosamente provata e non confusa o sovrapposta con la colpevolezza del (dipendente o amministratore dell’ente) responsabile del reato.

In conclusione, con la sentenza in commento, la Corte di Cassazione, ha affermato che giudici di merito non hanno dimostrato la “colpa di organizzazione dell'ente” ed è tornata a ribadire la necessità di non confondere la “colpa” dell’ente con la “colpevolezza” della persona fisica responsabile del reato.